7 marzo 2012

Iron Man - La biografia di Tony Iommi - Recensione

"Un uomo e Birmingham", questo potrebbe essere il titolo alternativo dell'autobiografia del chitarrista e fondatore dei Black Sabbath, Tony Iommi. Un ragazzo nato e cresciuto in una fredda città inglese, plurietnica e multiculturale, in quegli anni cinquanta in cui si affermava il blues e il rock n' roll anche in Europa. 
Iommi vive in quartiere periferico e resterà attaccato per sempre a quello strano luogo, abitato da chiassosi e chiacchieroni immigrati italiani, e alla sua famiglia che sembra uscire da un film di Scorsese: la mamma sicilianissima, nata a Palermo, incarna perfettamente il modello di madre possessiva e soffocante in classico stile "meridionale",  il padre e i nonni, anche loro italiani, uomini tutti d'un pezzo, commercianti dalla tempra così forte da sembrare loro dei veri "iron man".  Poi tutto attorno al quartiere di Ashton giravano le gang, i teppisti, gli ubriaconi ma anche i primi vinili dei bluesman americani. E da lì nacque tutto: la prima Stratocaster bianca, modificata in seguito all'incidente in fabbrica, in cui Iommi rischiò di compromettere per sempre la sua carriera, (una pressa mozzò i polpastrelli della sua mano destra e da allora Iommi utilizzò dei "ditali" che gli permettono ancora oggi di suonare la chitarra) e  la scoperta del chitarrista Django  Reinhardt, e la sua tecnica chitarristica rivoluzionaria, nonostante la menomazione all'arto.

Una carriera, quella di Iommi, che si è sviluppata già molti anni prima della nascita dei Sabbath, con centinaia di serate in giro per le peggiori bettole d'Europa, a suonare il blues con tante band diverse. Proprio in una di queste formazioni, Iommi incontrerà il suo compagno di avventure e batterista Bill Ward, che diventerà uno dei membri storici dei Black Sabbath e poi Geezer Butler, (il più colto della combriccola). Poi c'è lui: Ozzy. Il baffuto chitarrista ne parla sempre con affetto, con ammirazione, come del resto vengono dipinti tutti i personaggi del libro; non c'è quasi mai acredine nelle parole di Iommi, nei confronti di nessuno. Oggi parla da vero gentleman, ma come lui stesso afferma fra le righe: "stupidaggini, nella vita ne ho commesse parecchie".

Poche autobiografie dei divi del rock sono scritte con tale semplicità e schiettezza, raramente capita di leggere storie con tanta umanità e nello stesso tempo tanta oggettività. Inoltre il testo scorre piacevolmente, grazie a brevissimi capitoli di tre o quattro pagine, che non fanno mai perdere il lettore.   

Iommi, parla della sua vita, delle sue esperienze (perlopiù musicali) e non si dilunga mai sulle crisi matrimoniali, sui problemi con la cocaina, sul rapporto con il mondo dello showbiz. Inoltre, chi cercherà in questo libro macabre vicende legate alla stregoneria, al satanismo e alla magia nera ne resterà profondamente deluso. Iommi, pagina dopo pagina, spiega che l'immagine maledetta della band che creò l'heavy metal, non è stata altro che una caricatura. 

Ozzy Osbourne, Geezer Butler, Bill Ward e lo stesso Iommi erano solo dei ragazzi della classe operaia di Birmingham, dei giovanotti arricchiti, che distruggevano Rolls Royce e che incendiavano camere d'albergo. Proprio come le altre band "hard" dell'epoca, Zeppelin in primis. E proprio con John Bonham dei Led Zeppelin, Iommi si legherà a tal punto, da invitarlo ad essere il proprio testimone di nozze.  Una vita di eccessi porterà Bonham a non cambiare mai e a trovare la morte nel 1980, e una vita di responsabilità porterà Iommi a diventare il leader indiscusso dei Black Sabbath, a idearne tutti gli album, a farne da principale produttore per molti anni. 

Nel libro appare, dunque, la figura di un uomo dal carattere duro, determinato, con un grande orgoglio. Lo stesso orgoglio che lo porterà a lasciare in breve tempo i  Jethro Tull, nel quale era entrato ai tempi del "live televisivo" Rolling Stones Rock n' Roll Circus, solo per una battuta poco felice del manager della band.
Quella fuoriuscita porterà comunque grandi frutti: l'affermazione a livello planetario dei Black Sabbath e la nascita di uno stile unico, cupo, oscuro e tagliente, proprio come il suono delle fabbriche di Birmingham.

di Francesco Giacalone




14 dicembre 2011

Ac/Dc "Live at River Plate" recensione


Ci sono novità, di tanto in tanto che non t'aspetti. Ci sono band che ormai, si crede, abbiano dato già tutto. Nel cinico mondo del rock n' roll non ci si scandalizza più di nulla: reunion poco credibili, avvicendamenti, album, greatest hits e live concepiti solo in nome del Dio denaro.

Ma poi capita, per caso, di imbattersi in un dvd come Ac/Dc Live at River Plate, per rimanere a bocca aperta. Un "lavoro" tirato su con le migliori tecnologie, in cui suono e immagini si sposano alla perfezione. Ebbene sì, questo live in Argentina, tratto dall'ultimo tuor della band australiana è quanto gli amanti del rock vorrebbero trovarsi nei negozi almeno una volta mese.

La band gira al massimo, nonostante i capelli bianchi e gli anni passati sulla via del rock. Brian Johnson, in forma vocale smagliante e Angus Young sembrano davvero a loro agio, davanti agli iper-saltellanti giovani "tifosi" argentini. Un pubblico, appunto, che celebra alla grande i nonni più elettrizzanti dell'hard rock. Mai gli spettatori di un concerto, ripresi da decine e decine di telecamere, sono stati così parte integrante dello show. La registrazione del concerto ha richiesto infatti l'uso di 32 videocamere ad alta definizione, grazie alla produzione di una compagnia chiamata Serpent Productions.

Mai come su "Live at River Plate, si ha la sensazione di essere stati davvero lì, sudati, con le orecchie sanguinanti, e il cuore che batte a mille.
Probabilmente insieme a "Shine light" dei Rolling Stones, diretto da Scorsese, il miglior connubio fra musica e immagini nel genere rock.
              
                                                                                                                           di Francesco Giacalone

TRACKLIST:
"Rock 'N Roll Train" (Angus Young, Malcolm Young)
"Hell Ain't a Bad Place to Be" (Bon Scott, A. Young, M. Young)
"Back in Black" (Brian Johnson, A. Young, M. Young)
"Big Jack" (A. Young, M. Young)
"Dirty Deeds Done Dirt Cheap" (Scott, A. Young, M. Young)
"Shot Down in Flames" (Scott, A. Young, M. Young)
"Thunderstruck" (A. Young, M. Young)
"Black Ice" (A. Young, M. Young)

"The Jack" (Scott, A. Young, M. Young)
"Hells Bells" (Johnson, A. Young, M. Young)
"Shoot to Thrill" (Johnson, A. Young, M. Young)
"War Machine" (A. Young, M. Young)
"Dog Eat Dog" (Scott, A. Young, M. Young)
"You Shook Me All Night Long" (Johnson, A. Young, M. Young)
"T.N.T." (Scott, A. Young, M. Young)
"Whole Lotta Rosie" (Scott, A. Young, M. Young)
"Let There Be Rock" (Scott, A. Young, M. Young)
"Highway to Hell" (Scott, A. Young, M. Young)
"For Those About to Rock (We Salute You)" (Johnson, A. Young, M. Young)


FORMAZIONE:
Brian Johnson - Voce
Angus Young - Chitarra solista
Malcolm Young - Chitarra ritmica, cori
Cliff Williams - Basso elettrico, cori
Phil Rudd - Batteria

10 dicembre 2011

JaZz Portrait : Wes Montgomery

John Leslie Wes Montgomery nasce il 6 marzo del 1923 a Indianapolis; cresce in una famiglia di musicisti e inizia ben presto ad avvicinarsi al jazz ascoltando i dischi del suo idolo Charlie Christian. All’età di 12 anni imbraccia la sua prima chitarra, una 12 corde, ma la vera folgorazione arriverà quando a vent’anni acquista la prima chitarra semiacustica e, non sapendo leggere la musica, inizia ad imparare a memoria tutti i soli di Christian.

La sua totale dedizione alla chitarra jazz cattura l’attenzione di Lionel Hampton che lo inserisce nella sua storica band al fianco di Charles Mingus, Milt Buckner e Johnny Griffin. Wes affronterà un lungo e faticoso tour al termine del quale deciderà di tornare ad Indianapolis per dedicarsi alla moglie e ai figli. Alternerà quindi la sua attività di musicista con il lavoro in fabbrica per poter mantenere la famiglia, mentre trascorrerà le notti suonando in giro per i locali e al tempo stesso esercitandosi a casa e mettendo a punto la sua tecnica chitarristica che diventerà un vero e proprio “manuale d’istruzione” per le future generazioni di chitarristi jazz.

Il suo talento innato cattura l’attenzione del sassofonista Cannonball Adderley il quale riesce a fargli avere un contratto con la Riverside Records. Montgomery sarà così presente nell’album Poll Winners (1960) di Adderley e nel frattempo pubblica alcune registrazioni con i suoi fratelli a nome Montgomery Brothers. Iniziano così le collaborazioni con i grandi del jazz del momento: Wes registrerà con il Wynton Kelly Trio (ex line-up di Miles Davis) e parteciperà a delle jam session con il gigante John Coltrane, ma resterà sempre dedito ai suoi progetti personali rifiutando persino l’ingaggio da parte dello stesso Coltrane.

Continuerà così a pubblicare album a suo nome per tutta la prima metà degli anni ’60, e nel frattempo il suo stile si discosta sempre più dal bebop e dall’hard-bop per orientarsi verso un pubblico più eterogeneo (non mancherà infatti la presenza dell’orchestra in alcuni dei suoi ultimi lavori).
Raggiunta la fama internazionale grazie anche a pietre miliari del jazz quali Boss Guitar (1963), Smokin’ at The Half Note (1965) e A Day in The Life (1967), Wes Montgomery muore per un attacco cardiaco il 15 giugno del 1968 all’età di 45 anni.



“Ascoltare la chitarra di Wes Montgomery crea lo stesso brivido che provi quando barcolli sull’orlo di un precipizio…”

[Gunther Schuller - compositore, direttore d’orchestra]



Quando Charlie Christian venne allo scoperto, la chitarra elettrica divenne realtà. Quando Django Reinhardt decise di non arrendersi alla menomazione della sua mano sinistra, il jazz manouche divenne realtà. Quando Wes Montgomery mise le mani (anzi il suo pollice) sulla sua prima chitarra semiacustica, la chitarra jazz non fu più la stessa.

Il bebop, l’hard bop e il free jazz avevano in Charlie Parker, John Coltrane, Dizzy Gillespie, Sonny Rollins e Miles Davis i loro inventori e paladini; lo strumento a 6 corde aspettava ancora il suo “paladino elettrico” e nonostante lo scalpore provocato dai suoi colleghi predecessori, Wes Montgomery fu veramente il primo chitarrista jazz a tirar fuori dal suo strumento un suono prorompente e talmente incisivo da restare impresso per sempre nelle antologie del jazz a lui contemporaneo e in quelle delle future generazioni.



Numerose sono le sfumature del bebop; a volte si confondono, altre volte tutte queste “etichette” creano solo confusione. Ma in mezzo alle innumerevoli creazioni di quei geni-chitarristi-ribelli, talvolta riesci a riconoscerne subito il “tocco”: quello di Wes Montgomery colpisce subito l’orecchio per la sua limpidezza, e non solo. È il suono morbido, originale nonché uno dei più completi che verrà poi tramandato ed interpretato da tutti gli appassionati del genere.

La particolarità che rende unico Wes fra tutti gli altri mostri sacri della chitarra jazz è nascosta proprio dietro al suo “tocco”, il quale nasce quasi casualmente quando Wes (non ancora musicista a tempo pieno), lavorando tutto il giorno come operaio, poteva dedicarsi alla sua amata chitarra soltanto durante la notte. La leggenda vuole che Wes, per non disturbare la moglie e i figli durante le ore notturne, imparò a suonare la chitarra utilizzando solo il pollice della mano destra, evitando così di far troppo rumore e sviluppando di conseguenza una completa padronanza e un controllo tale da permettergli di sbarazzarsi del plettro e far uscire quel suono così morbido e quasi “felpato” che lo contraddistingue.


L’originalità di Wes Montgomery si manifesta anche nel suo stile: il virtuosismo diventa il suo asso nella manica e viene svelato solo a piccole dosi e nei momenti giusti. Così, Wes inizia ammaliando con i temi degli standard oppure con quelli scritti di proprio pugno, prosegue con dei piccoli tocchi di classe di “riscaldamento” per poi arrivare al suo pezzo forte: il “gioco delle ottave”. Wes sarà uno dei primi ad utilizzare questa tecnica d’improvvisazione riuscendo a basare interi soli interamente su questo stile. E mentre siete voi a concentrarvi seguendo con l'occhio le sue enormi dita che danzano sulla tastiera della chitarra, lui si concentra a modo suo mostrando il suo indimenticabile sorriso mentre si diverte come un ragazzino ondeggiando ad ogni singola nota seduto sul suo sgabello.

Anche questa sua personale caratteristica diventerà un vero e proprio standard per la chitarra jazz costituendo la base sulla quale artisti del calibro di George Benson, Pat Martino, Lee Ritenour, Pat Metheny e così via, hanno iniziato a sperimentare e a far evolvere questo strumento.

Per una così ben definita pulizia del suono, Wes si avvaleva di un amplificatore valvolare Fender Super Reverb (equipaggiato con 4 coni da 10 pollici) e, negli ultimi anni della sua carriera, di uno Standel Super Custom XV. Il timbro asciutto e “legnoso”, invece, veniva prodotto dalla sua personalissima Gibson L-5CES (da sempre la chitarra pioniera in ambito jazz assieme alla sua “gemella”, la ES-175) che rimase il suo strumento prediletto per tutta la sua carriera.

Preferendo un suono jazz-standard, Wes chiese alla Gibson di produrre un modello personalizzato con un solo pick-up (un ’57 Classic Humbucker) posizionato al manico, eliminando così l’inutile per lui pick-up al ponte (fonte solo di impaccio per la mano destra) e dei relativi due potenziometri del volume e del tono. Altra caratteristica non tecnica: un cuore bianco disegnato sulla cassa della chitarra, proprio sotto il batti-penna.

Nonostante la morte prematura a 45 anni, Montgomery non si è mai astenuto dalle registrazioni in studio, pubblicando più di una ventina di album suddivisi tra la Riverside Records, la Verve e la A&M, più le varie illustri collaborazioni negli album Poll Winners (1960) di Cannonball Adderley, West Coast Blues! (1960) di Harold Land e Work Song (1960) di Nat Adderley.
Partendo da Fingerpickin’ (1958), passando per il capolavoro The Incredible Jazz Guitar (1960) e per il celebre live Smokin’ at The Half Note (1965), Wes Montgomery attraversa un po’ tutte le sfumature del bebop (swing, soul-jazz, blues), prediligendo le formazioni in trio o in quartetto (l’organista Melvin Rhyne e il batterista Jimmy Cobb faranno spesso parte delle sue line-up) fino a sperimentare l’utilizzo dell’orchestra e degli archi in particolare verso gli ultimi anni della sua carriera, accantonando le composizioni d’avanguardia per raggiungere un pubblico più vasto.
Sarà, infatti, uno dei primi artisti jazz ad imbattersi in cover di brani allora famosi in ambito rock e pop: con tanto di accompagnamenti orchestrali, Montgomery crea un modo tutto suo (innovativo per i tempi) di ri-arrangiare dei classici ormai celebri fra le grandi masse di fine anni ’60.

Registra così delle versioni jazz di “Eleanor Rigby”, “A Day in the Life”, “Yesterday” e “I’ll be back” di John Lennon e Paul McCartney, “Scarborough fair” di Simon & Garfunkel, e “rispolvera” parecchi standard. Non mancano brani originali che portano la sua firma e che diventeranno a loro volta degli standard molto noti in ambito jazz: “Four on six”, “West Coast Blues”, “Jingles”, “D-Natural Blues”, Twisted Blues”, e così via.

Oltre ai suoi fratelli Buddy e Monk, per le registrazioni in studio e per i concerti, Wes Montgomery si è sempre avvalso della collaborazione dei migliori musicisti a lui contemporanei: il trombettista Freddie Hubbard, i sassofonisti Pony Pointdexter, Harold Land, i pianisti Tommy Flanagan, Melvin Rhyne, Wynton Kelly, i bassisti Percy Heath, Ron Carter, Paul Chambers, i batteristi Philly Joe Jones, Jimmy Cobb, solo per nominarne alcuni.

Dell’eredità musicale di Wes Montgomery troviamo traccia in quasi tutti i chitarristi jazz oltre che nelle scuole di musica di tutto il mondo. Così come l’evoluzione del jazz non sembra avere confini, il suono e la figura di Wes rimangono scolpiti nella sua discografia della quale riporto di seguito alcuni titoli da me consigliati. Buon ascolto.



di ANTONINO BONOMO




1958 - Fingerpickin'
1959 - The Wes Montgomery Trio
1960 - The Incredible Jazz Guitar of Wes Montgomery
1965 - Bumpin'
1965 - Smokin' at The Half Note
1966 - Tequila
1966 - Jimmy and Wes: the dinamic Duo (with Jimmy Smith)
1967 - A Day in The Life

13 ottobre 2011

Alice Cooper live a Roma/Recensione

Tutti i nonni del mondo raccontano le fiabe ai propri nipoti: fate, principi, maghi e di tanto in tanto qualche strega cattiva. C'è un nonno invece che risponde al nome di Vincent Furnier, sessantatre anni, che per i nipotini che lo seguono per il globo, mette in scena addirittura un vero e proprio teatrino, ma con ghigliottine, mostri, bambole squarciate, fantocci impiccati e sangue a go go. E' vero, lo show di Alice Cooper, è uguale a se stesso ormai da molti anni, e ovviamente siamo ben più sdegnati da quanto succede nella vita reale che da qualche tizio infilzato in giro per il palco. Ma chi può far divertire, riflettere, emozionare e nello stesso tempo suonare ottimo rock n roll? Lui! Uno dei pochi ormai, e non sembra neanche stanco. Mai stanco di interpretare quel ruolo sia di vittima che di carnefice, grazie a quella teatralità che in molti hanno tentato, con alterne fortune, di riproporre.

Lo spettacolo inizia, con soli venti minuti di ritardo, ma l'ora in attesa è carica di emozione. La maggior parte dei fan sotto al palco si tinge la faccia per somigliare ad Alice: dark, punk, metallari, signori panciuti in giacca e scarpe lucide, non c'è differenza. Alice Cooper ha sempre messo tutti d'accordo. E proprio tutti sono pronti ad assistere ad uno dei più stravaganti rock n roll show della loro vita.

Il telo con la megafaccia di Cooper si sfila e inizia una Black Widow mozzafiato e tutto quel fracasso a poco a poco si trasforma in energia, in una libera, sana e divertente armonia fra il protagonista, i musicisti della band e il pubblico. Tutti gli occhi sono puntati sulla splendida Orianthi, giovane chitarrista australiana, dal sound moderno, che ben si adatta ai brani degli anni 80 e 90. Ad accompagnare Alice, in questo nuovo tour c'è anche il vecchio amico Steve Hunter, già stretto collaboratore negli anni settanta e artista di livello internazionale (ha suonato su album storici, come Rock n' Roll animal e Berlin di Lou Reed, solo per citarne un paio). Poi non dimentichiamo la solida base costituita da Tommy Henriksen alla chitarra ritmica, Chuck Garrie al basso e il superbo Glen Sobel alla batteria.


Non c'è dubbio, i brani, tutti ben collegati fra loro, a ripercorre quattro decenni, splendono e risultano freschi, vivi, (quasi) tutti molto attuali. Hunter, dal canto suo, sembra molto a suo agio, spaziando libero in fraseggi e parti soliste profonde e di alta classe; un pò più impacciato invece nei movimenti, dato che è stato (forzatamente) addobbato da metallaro, con tanto di croci e pellame vario. In ogni modo si diverte e fa divertire, con un sound davvero old-style.

Appare chiaro che i brani suonati con più voglia sono quelli degli anni settanta: I'm 18, No more Mr. Nice Guy, School's Out e Elected (brano di chiusura con tanto di maglia della nazionale italiana e bandiera tricolore). Non sono mancate Poison, la splendida Feed my Frankestein e Only women bleed e I'll bite you face off, del nuovo album "Welcome two my nightmare", come non sono mancati i travestimenti e gli attori di contorno nelle scene ormai cult nei concerti di Alice.

Grande show, dunque, al PalAtlantico di Roma, nessuno aveva dubbi, nessuno si aspettava altro che questo: brani rock, ironia, scenografia e teatralità di gran livello e una scarica di adrenalina che pochi al mondo riescono ancora a dare, al modico prezzo di euro 36, 90.


di Francesco Giacalone

9 ottobre 2011

Recensione: John Mayall - Blues from Laurel Canyon

"Il 14 luglio del 1968 i Bluesbrakers si sciolsero in seguito alla mia decisione di intraprendere una carriera solista con un piccolo gruppo spalla. Questo mi portò a scegliere le persone giuste per la nuova formazione.
Dubito ci fosse una scelta migliore della chitarra di Mick Taylor che in quest’album splende come non mai. Ha lavorato con me più a lungo di qualunque altro chitarrista e spero che continui per molto tempo.
Sono molto fiducioso anche della nuova sezione ritmica composta da Stephen Thompson e Colin Allen i quali, dopo un breve periodo di oscurità, sono già tornati alla ribalta.
Quest’album ripercorre le 3 settimane trascorse a Los Angeles dopo lo scioglimento dei Bluesbrakers. Sono veramente soddisfatto di come i miei musicisti hanno trasformato in musica tutte le esperienze e le emozioni che ho trascorso durante questa breve visita alla mia nuova casa."
[John Mayall, 3 Settembre 1968]



Bastano le sole parole di John Mayall per descrivere la sua stessa pietra miliare del blues.
Un viaggio attraverso le sfumature musicali di colui che ha fatto del blues una vera e propria ragione di vita, colui che ha attraversato intere decadi rimanendo sempre fedele alla sua religione senza mai fossilizzarsi, ma cercando di rinvigorirla e trasformarla in modo da poter essere tramandata a tutte le generazioni future.

L’immensa produzione musicale di John Mayall scorre sotto il segno del blues, ma abbraccia anche il rock e il jazz oltre ai numerosi talenti venuti allo scoperto grazie a lui: Jack Bruce, Mick Taylor, Peter Green, John McVie, Eric Clapton, Mick Fleetwood, Aynsley Dunbar, Jon Hiseman, Dick Heckstall-Smith, Buddy Whittington e così via.
Ciò che il nome di Miles Davis significa per il jazz, quello di John Mayall si identifica come uno dei più grandi innovatori e cultori del blues di tutti i tempi, in particolare per la scena inglese. Proprio come Miles, John è andato oltre le forme tradizionali del blues lanciandosi nella ricerca di nuove sfumature e, al tempo stesso, facendo leva su svariati talentuosi musicisti. L’impronta indelebile lasciata nella storia del blues riguarderà non soltanto i suoi album, ma anche le produzioni a suo nome e il suo contributo di inestimabile valore nei confronti del revival del blues americano in Europa, attraverso l’organizzazione di svariate sedute di registrazione che ebbero come protagonisti i quasi sconosciuti bluesman americani.

Il viaggio di John Mayall riportato in Blues from Laurel Canyon inizia con il rombo del motore di un aeroplano che lo trasporta nell’area di Los Angeles, un vero e proprio fiume in piena soprattutto nella seconda metà degli anni ’60. È qui che si ritrovano tutti i grandi, coloro che daranno vita a nuove filosofie musicali che di lì a poco cambieranno il volto delle nuove generazioni americane e non solo…
L’avventura americana per Mayall inizia con “Vacation”, un’elettrizzante introduzione scandita da un’impeccabile successione di accordi e dall’immortale solo firmato dal giovanissimo Mick Taylor: un tornado, un fulmine a ciel sereno, un’introduzione da premio oscar che non lascerebbe per nulla presagire ad un disco blues. Subito dopo, l’atterraggio: in “Walking on sunset” e “Laurel Canyon Home”, John descrive tutta la magia trasmessa da questi nuovi luoghi (“all the pretty women”, “everything is like a friend”) e sembra quasi non esserci fine alla bellezza del posto.
Dopodiché, Mayall passa in rassegna gli incontri avvenuti con i musicisti del luogo: in “2401”, esprime tutta la sua ammirazione per “l’eroe” Frank Zappa, colui che cerca di “cambiare il sistema” attraverso la sua musica (“there’s a hero living at 2401, got his Mothers working while you’re having fun”), mentre in “The bear” descrive il suo soggiorno insieme al cantante Bob Hite (che verrà ribattezzato proprio con questo soprannome) e ai Canned Heat nella “casa del blues”, nella quale si ascoltava e si faceva musica giorno e notte.

Tutte le avventure di Mayall vengono narrate sopra uno splendido sottofondo musicale che spazia attraverso il blues, atmosfere esotiche scandite dall’uso dei tamburi (“Medicine Man”), fino a raggiungere il jazz-swing con “Miss James”, dove Mayall mette in mostra tutta la sua versatilità passando dall’organo all’armonica e alla chitarra. Trovano spazio anche le atmosfere “solitarie” come in “First time alone” che viene scandita dal timbro vocale di John, riconoscibile fra mille. La chitarra che a tratti colora il brano è quella di Peter Green, colui che si unì nuovamente ai Bluesbrakers quando Eric Clapton lasciò la band di John Mayall nel 1966.

Un’incredibile e altrettanto atipica traccia di chiusura, “Fly tomorrow”, chiude in bellezza il capolavoro di John Mayall: il quartetto “cuce” con eccellente maestria due brani insieme attraverso un crescendo che passa da un’atmosfera piatta e rilassata ad un turbinio di profonde linee di basso e ritmo incalzante di batteria sopra i quali Mick Taylor punzecchia con la sua Les Paul, mentre Mayall lancia delle vere e proprie sassate sonore attraverso il suo Hammond.
E come se non bastasse, gli effetti psichedelici dell’organo condurranno poi alla chiusura dell’album con un tappeto di percussioni e un fantastico effetto di chitarra alla “spaghetti western” che portano a termine il viaggio di John Mayall.
Blues from Laurel Canyon venne registrato tra il 26 ed il 28 agosto del 1968 negli studi della casa discografica Decca, a Londra. Poco meno di un anno più tardi, lo stesso John Mayall darà la propria benedizione al giovane Mick Taylor per il suo ingaggio nei Rolling Stones, mentre Stephen Thompson e Colin Allen si uniranno agli Stone the Crows. Da parte sua, John inizierà un nuovo capitolo della sua lunghissima carriera, continuando a sperimentare diverse formazioni.



Sono molti i concept album nella storia della musica, ma non nel blues: forse non è il genere adatto per descrivere una vera e propria storia. D’altronde, ogni singolo blues rappresenta una piccola storia a se stante, che sia il mal di vivere, la sofferenza per un amore perduto, il patto con il diavolo, l’ossessione per la bottiglia, la follia di ogni giorno… tutto questo era vero fino a quando John Mayall non creò Blues from Laurel Canyon, attraverso il quale raccontò un viaggio vero, il suo, e lo fece unendo fra di loro (senza pause) tutti quegli episodi che lo segnarono profondamente. Ogni singola avventura diversa dall’altra, diverso colore, diversa tonalità, diversa struttura, diversa storia e diversi protagonisti.

Ora è il vostro turno: tocca a voi diventare protagonisti di questa musica e di queste parole. Buon ascolto.


di ANTONINO BONOMO


Tracklist

John Mayall
BLUES FROM LAUREL CANYON
(Decca Records, novembre 1968)
  1. Vacation E
  2. Walking on sunset Ab
  3. Laurel Canyon Home C
  4. 2401 A
  5. Ready to ride E
  6. Medicine man G
  7. Somebody's acting like a child Db
  8. The bear Bb
  9. Miss James F
  10. First time alone B
  11. Long gone midnight Eb
  12. Fly tomorrow D

All tracks written by John Mayall.

Line-up:

John Mayall - guitar, harmonica, keyboards, vocals
Mick Taylor - guitar, hawaiian guitar
Colin Allen - drums, tabla
Stephen Thompson - bass
Peter Green- guitar on "First time alone"

18 settembre 2011

Recensione : J.J. Cale - Troubadour

I'm a gypsy man on a one-night stand. I'm with a gypsy van, just travelling the land…

1976 (da qualche parte nell’Oklahoma)
Mentre la Allman Brothers Band viveva il periodo di maggiore crisi conclusosi con lo scioglimento del gruppo; mentre i Lynyrd Skynyrd accolgono nella loro line-up il chitarrista Steve Gaines intraprendendo l’ultimo di chissà quanti altri anni d’oro della loro carriera, se non fosse stato per l’incidente aereo dell’anno successivo; mentre Leon Russell continuava a sfornare collaborazioni, composizioni e album mentre la sua lunga barba continuava a crescere, e mentre Glenn Campbell, Elvin Bishop e Clyde Stacy facevano del tulsa rock uno dei generi più prolifici tra quelli meno noti al successo commerciale, John Weldon Cale, meglio noto come J.J. Cale, pubblicava il suo quarto album in studio, Troubadour, e continuava senza far troppo chiasso il suo percorso artistico e musicale.



Proprio così, senza far rumore, quasi sottovoce e seguendo imperterrito il suo personalissimo timbro vocale e le sue ballate country, rock e blues. Troubadour è il capolavoro per eccellenza di J.J. Cale, un’ulteriore creazione e conferma della sua arte “minimalista”: la sua voce tenue e giusto un po’ graffiante scorre fra i ritmi smorzati della ritmica, fra le delicate atmosfere di tastiera, organo e fiati e si immerge nello slide delle chitarre country.

J.J. è uno dei pochi a saper incantare con brani che non superano i 3-4 minuti, che non esagera negli arrangiamenti e nei soli, e soprattutto che continua ad essere il punto di riferimento costante per numerosi artisti: Mark Knopfler si ispirerà al suo stile e resterà per sempre devoto alle sue ballad ed Eric Clapton lo considera uno degli artisti che più hanno influenzato la sua carriera, mentre Harry Manx, i Lynyrd Skynyrd e i Kansas riprenderanno alcune sue composizioni.

Come per i suoi precedenti album, J.J. spazia dal country al rock al blues e perfino al jazz, e lo fa alla sua maniera: non prevale mai un singolo strumento, ne tantomeno la sua voce, creando al tempo stesso una piacevole e calma atmosfera sottoforma di piccole degustazioni sonore. Ecco perché non si circonda di superstar per la produzione dei suoi album, ma preferisce dare spazio a vari musicisti quasi sconosciuti, ma di grande effetto per il suo stile.
Durante le registrazioni di Troubadour, si alternano numerosi bassisti, batteristi, chitarristi e pianisti, soltanto alcuni rimangono gli stessi dei suoi precedenti album, ma in generale J.J. conferisce ad ogni singolo brano un sound quasi sempre diverso, talvolta più colorato talvolta più cupo o “elettrico”. Ed è proprio questo il segreto che rende ogni suo album orecchiabile e gradevole, nonostante si mantenga sia lo stile sia la lunghezza delle registrazioni.

Troviamo quindi piccole fiammate elettriche in “Travelin’ light”, “Ride me high”, “I’m a gypsy man” e nell’intramontabile “Cocaine”. Si passa quindi alle splendide ballate country quali “Cherry” e “You got something”, si sfiora il jazz tradizionale con “Hold on” e “You got me so bad” e si raggiunge il blues classico e struggente con “Super blue” e “The woman that got away”. J.J Cale mantiene il suo profilo basso anche nella scelta dei testi, con tematiche che spaziano dal tema dell’amore, felicità, depressione, passando attraverso l’euforia della droga.

Incredibile come la sua semplice voce riesca ad adattarsi su tutti questi diversi tappeti musicali, merito di una devozione artistica tanto gelosamente custodita e mai svenduta in super-collaborazioni o consumata e sparsa per studi televisivi sotto i riflettori.
Il suo carattere riservato sia nella vita privata che in pubblico lo porterà a scegliere pochi selezionati amici con i quali condividere la sua musica (come quando inciderà The Road to Escondido con Eric Clapton nel 2006), così come saranno pochi gli “eletti” che avranno il piacere di suonare con lui su un palcoscenico.



Questa sua riluttanza ad apparire in pubblico non minerà per nulla il suo contributo musicale sia in termini economici che artistici, dal momento che sono innumerevoli i fans che ancora oggi restano devoti alla sua arte minimalista, mentre i più grandi nomi della scena del rock continuano ad omaggiarlo con tributi ad alcune delle sue più celebri composizioni. “After midnight”, “Cocaine” e “Travelin’ light” sono diventate hit numero uno grazie a Clapton e company, mentre “Call me the breeze” e “I got the same old blues” rimangono alcune delle più emozionanti performance live dei Lynyrd Skynyrd.

Ascoltare J.J. Cale significa rilassarsi e gettarsi al tempo stesso nella mischia di quelle sonorità calde, struggenti e “non impegnative” che hanno ritrovato vitalità durante la metà degli anni ’70.
Grazie alla limpidezza delle registrazioni, con Troubadour se non l’avete ancora fatto potrete conoscere J.J. Cale nel suo momento migliore, e potrete immaginarlo seduto su uno sgabello in studio di registrazione o su un palco, con quella sua aria da cowboy mentre suona la chitarra tenendola su un fianco e nel frattempo vi scruta con il suo sguardo sbarazzino.


di ANTONINO BONOMO




Tracklist

J.J. Cale
TROUBADOUR
(Shelter Records, settembre 1976)
  1. Hey baby
  2. Travelin' light
  3. You got something
  4. Ride me high
  5. Hold on
  6. Cocaine
  7. I'm a gypsy man
  8. The woman that got away
  9. Super blue
  10. Let me do it to you
  11. Cherry
  12. You got me so bad

All tracks written by J.J. Cale,
except "I'm a gypsy man" written by Sonny Curtis.


Musicians:

J.J. Cale - vocals, guitar, piano
Charles Dungey - bass (tracks 1, 9)
Tommy Cogbill - bass (tracks 2, 5, 8, 10, 11 ,12)
Joe Osborn - bass (track 3)
Bill Raffensberger - bass (track 7)
Karl Himmel - drums (tracks 1, 2, 4, 9)
Kenny Buttrey - drums (tracks 3, 6, 8, 10)
Buddy Harman - drums (tracks 5, 12)
Jimmy Karstein - drums (track 7)
Kenny Malone - drums (track 11)
Gordon Payne - guitar (track 8)
Chuck Browning - guitar (track 8)
Reggie Young - rhythm guitar (tracks 1, 6, 9)
Harold Bradley - rhythm guitar (track 2)
Bill Boatman - rhythm guitar (track 7)
Lloyd Green - steel guitar (tracks 1, 9)
Buddy Emmons - steel guitar (track 5)
Farrel Morris - percussion (tracks 2, 9, 11)
Audie Ashworth - percussion (track 3)
J.J. Allison - percussion (track 7)
Don Tweedy - arp
Bobby Woods - piano (track 8)
Bill Purcell - piano (track 12)
George Tidwell - trumpet (track 10)
Dennis Goode - trombone (track 10)
Billy Puett - saxophone (track 10)



16 settembre 2011

Lenny Kravitz, Black and White America/Recensione

La potenza del soul e l'anima pop di un artista (im)maturo più che mai. La miscela esplosiva dell'ultimo album di Lenny Kravitz è composta per far sentire la propria voglia d'affrancarsi dai lavori commerciali degli ultimi dieci anni. Black and white America, uscito il 29 agosto in tutto il mondo si presenta come una delle più belle novità del panorama musicale internazionale, di quello che sarà un autunno caldissimo, insieme ai nuovi lavori dei mai tramontati Red Hot Chili Peppers e del vecchio maestro Alice Cooper, con album che porteranno un po' di rock nelle radio e nelle orecchie degli ascoltatori più esigenti.

Riff di chitarra che profumano d'antico e nuove sonorità, servono a Lenny per confezionare un album che non segue un unico filo conduttore ma che esplora le diverse anime della musica, spaziando dalle ballate al soul, dal rock al funk, cosa che del resto riesce molto bene ad un artista che in oltre vent'anni di carriera ha saputo imporre la contaminazione fra generi come una vera e propria carta vincente.

Che l’America sia il Paese dove tutto può succedere, (anche nella musica) non è una novità, così Kravitz già nella prima traccia dell’album, regala una spruzzata di puro black sound, tutto proiettato verso l'abbattimento delle barriere culturali, sociali e artistiche.

Con “Come on get it”, pezzo già pubblicato a febbraio per uno spot promozionale del NBA, si da spazio al rock: assolutamente da inserire tra i migliori dell’intero album. Seguono “In the black” e “Liquid Jesus“, dopo le quali arriva un altro brano da promuovere, “Rock Star city Life“: la quinta traccia spicca tra le altre ed ha quel suono che sicuramente piacerà alle emittenti radiofoniche . Si giunge così al sesto brano, intitolato “Boongie Drop” cantato con Jay Z e DJ Military, una vera novità nello stile di Lenny, ma non può che far piacere sentire degli artisti tanto diversi mettersi in gioco e provare a condurre la musica nera verso nuove direzioni, con semplicità e diciamolo, solamente con il ritmo. Non possiamo decretare tra le migliori tracce dell’album invece “Sunflower“, altro brano nato con la collaborazione del rapper afro-canadese Drake.

Cio' che appare chiaro è l'intenzione da parte di Lenny di stare alla larga dalle influenze del pop e delle melodie ascoltate e ri-ascoltate che lo hanno reso ricco e famoso. Probabilmente, l'intento è quello di volersi togliere la maschera della rockstar appassita, e concentrarsi più sul groove, riuscendo a buttar fuori dalla propria testa arrangiamenti da primo in classifica. La vecchia strada, battuta troppe volte, sembra lontana e il “vintage” è in primo piano solo in pochi momenti. "Black and white America" è un album di “mescolanza” che serve per non far svanire il sogno di un'America davvero libera da discriminazioni ed etichette.

Certo, la storia della musica ci insegna che un album con sedici brani, deve davvero essere un capolavoro per mantenere incollati alle cuffie chi l'ha acquistato ma per evitare l'overdose da soul, l'antidoto è semplice, più ricerca sonora, testi accattivanti e voglia d'arrivare al maggior numero possibile di fan. Insomma, rock, funk, disco, punk e black music, sono necessari altri “tag”?
di Francesco Giacalone